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La Direttiva 38/2004/CE sulla libera circolazione

La libertà di circolazione e soggiorno è una delle quattro libertà fondamentali garantite dall’Unione Europea (insieme alla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali). Attualmente, la Direttiva 38/2004/CE stabilisce le condizioni per l’esercizio di tale diritto (sia esso temporaneo o permanente) da parte dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari.

Nel Regno Unito la Direttiva è stata recepita nel 2006 con la legge SI No. 1003 (The Immigration – European Economic Area – Regulations). Da allora, il Paese ha progressivamente emendato la normativa per aderire alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea o per appianare eventuali problematiche interpretative o di incorretta/parziale ricezione. Attualmente nel Paese è in vigore la SI 2016 No. 1052 (The Immigrstion – European Economic Area – Regulations, 2016) che in larga parte riprende e consolida la normativa del 2006 ed i suoi emendamenti, semplificandone il linguaggio e chiarendone l’interpretazione.

Nonostante ciò, la Direttiva non è stata ancora recepita nella sua interezza e continuano a sussistere vuoti e incertezze normative ed anzi, in alcune sue parti, la nuova legislazione del 2016 sembra avere esacerbato alcune delle problematiche preesistenti.

Uno dei problemi più evidenti è, ad esempio, l’interpretazione molto restrittiva del concetto di “persona qualificata” ad essere titolare dei diritti espressi dalla normativa. Particolarmente problematici in questo senso sono i diritti di soggiorno, che continuano a costituire un punto di parziale applicazione non tanto per la trasposizione letterale delle norme, quanto per l’interpretazione data alle stesse ed i loro criteri di applicazione.

Gli aventi diritto secondo la legislazione britannica (SI 2016 No. 1052)

In tal senso, il periodo di soggiorno superiore a tre mesi è probabilmente il più problematico. Uno dei punti d’attrito è la definizione di persona “autosufficiente” ed il concetto di “risorse sufficienti” (sufficent resources), necessari per i cittadini europei/membri familiari non attivi per usufruire dei diritti derivati dalla trasposizione della Direttiva nell’ordinamento britannico. Il provvedimento è ambiguo in quanto nel Regno Unito sono presenti diverse forme di assistenza sociale, a cui è possibile accedere con diverse soglie di reddito. Non sarebbe sempre legalmente certo, dunque, quando un cittadino europeo possiede risorse sufficienti o meno.

I cittadini europei rispetto a quelli britannici possiedono, di fatto, meno possibilità per quanto concerne il mantenimento dello status di lavoratore (subordinato od autonomo). Mantenere i diritti acquisiti come individui economicamente attivi è più complicato nella normativa nazionale di quanto sarebbe previsto seguendo i principi della Direttiva, specialmente in caso di cessazione del lavoro o per quanto concerne i lavoratori autonomi.

Da un punto di vista normativo, la Direttiva rimane correttamente e largamente traposta nell’ordinamento britannico. Numerose delle potenziali barriere per i cittadini europei identificate nel corso degli anni sono, tutto sommato, risolte dagli emendamenti alla normativa del 2006 che non è stata nella sostanza modificata dalla nuova normativa del 2016. Alcuni problemi legati alla legge in sé od alle sue applicazioni pratiche ancora permangono (come ad esempio dal fatto che il Regno non ha ancora trasposto l’art. 24 comma 1 della Direttiva sul trattamento paritario).

Appare evidente, tuttavia, come il Regno Unito voglia limitare il diritto di soggiorno ed entrata solo alle persone che sono in grado di portare vantaggi sostanziali all’economia del Paese e non rischiare di essere un onere per la comunità britannica. Non è un caso, in tal senso, che l’intero impianto della campagna referendaria dei partiti pro-Brexit sia stata giocata sulla difesa del Regno da una supposta invasione di manodopera “straniera” a basso costo e sullo sfruttamento dei benefit messi a disposizione dello Stato.

Al di là della veridicità di una simile affermazione, il punto è che la scelta arbitraria su chi può detenere lo status di lavoratore e chi no, ad esempio, non solo viola i trattati fondanti dell’Unione Europea (ivi compreso il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e lo stesso art. 24 della Direttiva) e la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, ma fraintende completamente lo spirito su cui si fonda il progetto Europeo stesso. Sebbene la Direttiva sia sostanzialmente rispettata ed integrata nella legislazione nazionale, dunque, ne fraintende completamente lo scopo, ovvero quello della libera circolazione dei cittadini Europei che devono essere considerati uguali ai cittadini nazionali.

In tal senso, si può notare come dalla legislazione nazionale (ed in particolare dalla modifica del reg.6) emerga che il Regno avesse intrapreso iniziative per limitare l’entrata e lo stanziamento dei cittadini europei ben prima (almeno dal 2012) del referendum che ha sancito la decisione dei suoi sudditi di uscire dall’Unione (Giugno 2016). Sembra, dunque, che questo tipo di cambiamenti e resistenze fossero parte di una strategia politica più ampia portata avanti da Londra che mirava alla messa in discussione di alcuni capisaldi dei Trattati Europei, degli impegni ascrivibili ad ogni singolo membro dell’Unione ed in definitiva alla rapporto tra il Regno e l’Unione Europea. Ne è un esempio il sistema del minimum earning threshold che, combinato con il right to reside test, potrebbe avere ripercussioni rilevanti per l’accesso all’assistenza sanitaria e sociale per i cittadini europei, specialmente quelli a basso reddito o con contratti a “zero ore”.

Va notato che gli impedimenti all’esercizio della libertà di movimento rimangono (ad esempio per i familiari di cittadini europei provenienti da Paesi Terzi) più di ordine pratico che legale. È frequente, infatti, che il sistema amministrativo britannico si riveli lento e macchinoso nel consentire ai cittadini europei di esercitare i diritti connessi alla Direttiva (ritardi, richieste di ulteriore documentazione, pagamento dei servizi, consegna del passaporto, etc.). In più è talvolta capitato che ad alcuni familiari di cittadini europei siano state applicate le norme sull’immigrazione invece che quelle più favorevoli a cui avevano diritto. Alternativamente, sembrerebbe che esistano prove di un eccessivo uso dell’accusa di matrimonio di convenienza per negare l’entrata. A tal proposito, poi, l’inserimento nella normativa del 2016 di un limite temporale per usufruire da parte di familiari provenienti da Paesi terzi della normativa SI 2016 1052, è un chiaro segno della direzione intrapresa dal Regno Unito.

È infine interessante notare come taluni degli ostacoli descritti sorgono non da una carenza di trasposizione delle norme della Direttiva, ma da un opera attiva di emendamenti alla normativa del 2006 volta a fornire dettagli e specificazioni che di fatto limitano l’esercizio del diritto di libera circolazione.

Alla luce del referendum sull’uscita dall’Unione sembra alquanto improbabile che tali tematiche vengano affrontate in maniera sistematica nella normativa vigente e che, con più probabilità, il testo attuale rimarrà sostanzialmente inalterato. Eventuali modifiche dovranno essere effettuate nel corso delle trattative precedenti all’uscita definitiva della Gran Bretagna.

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