Oggi ricorre il 62° anniversario del disastro del Vajont, avvenuto nella valle omonima tra Veneto e Friuli Venezia Giulia dove, alla fine degli anni Cinquanta, fu costruita la diga a doppio arco più alta del mondo, capace di sottendere un bacino idroelettrico di oltre 150 milioni di metri cubi d’acqua.
La sera del 9 ottobre 1963, alle 22:39, una frana di circa 270 milioni di metri cubi precipitò nel lago artificiale, sollevando un’onda alta quasi 200 metri. L’acqua fece piovere enormi massi sull’abitato di Casso, distrusse intere frazioni di Erto e, una volta superata la diga, la sua forza distruttrice si abbatté sulla città di Longarone e sulle sue frazioni situate a fondovalle. Il bilancio fu terribile: 1910 vittime ufficialmente accertate. Per la sua portata, il disastro del Vajont è stato riconosciuto dall’UNESCO, nel 2008, come “uno dei peggiori disastri ambientali causati dall’uomo”, dovuto alla mancata comprensione, da parte di ingegneri e geologi, della complessità del fenomeno che stavano studiando.
Accanto agli aspetti tecnici e storici, esiste però una dimensione spesso meno raccontata: quella degli emigranti. Erano uomini e donne che, come accade ancora oggi, avevano lasciato la loro terra per inseguire un futuro migliore, portando con sé la nostalgia dei luoghi e degli affetti lontani e il sogno, un giorno, di poter tornare. Per molti emigrati longaronesi, però, quel sogno si spense tragicamente nella notte del 9 ottobre 1963. All’alba del giorno seguente, i giornali e le radio di tutta Europa diffusero le prime notizie frammentarie. Incredulità e angoscia percorsero le comunità di emigranti: era difficile realizzare che, in una sola notte, case, strade, ricordi e persone amate fossero svanite per sempre. Il quotidiano La Notte riassunse lo strazio degli emigranti rientrati in fretta: “Gli emigranti tornano a casa con il vestito nero in valigia”.
Tra le storie che ci riguardano più da vicino c’è quella di Ada De Col, che aveva lasciato l’Italia per il Regno Unito, come tanti di noi in cerca di lavoro e speranza. Poco prima del disastro era tornata a Longarone per rivedere i suoi cari. In quella notte terribile perse la vita insieme ad altre 1909 persone.
Il disastro del Vajont segnò anche l’inizio di nuove migrazioni. Gli abitanti di Erto e Casso, già provati dagli espropri per la costruzione del bacino e da anni vissuti con la paura che l’intero paese di Erto potesse un giorno sprofondare nel lago, furono costretti a lasciare le loro case e a ricostruire comunità altrove, come nel nuovo paese di Vajont, sorto nella pianura pordenonese. Non tutti, però, si rassegnarono: alcuni decisero di ribellarsi e, nonostante i divieti di legge, tornarono a vivere nei luoghi rimasti, mossi da un legame indissolubile con le loro montagne.
Il disastro del Vajont non è solo la pagina di cronaca di una tragedia evitabile, ma anche la storia di comunità spezzate, di famiglie distrutte, di case e paesi cancellati. Ricordarlo significa dare voce a chi non l’ha più, onorare la dignità di chi ha perso tutto e rafforzare i legami che tengono unite le nostre comunità, dentro e fuori i confini nazionali. Perché la memoria del disastro del Vajont non appartiene solo al passato: è un monito e una responsabilità che ci accompagna ancora oggi.
(Autore testo e foto : Andrea Di Antonio)

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